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“Il sentiero selvatico” per riscoprire il legame più profondo con la natura – Intervista a Matteo Righetto, tra ecologia e letteratura dolomitica

“Il sentiero selvatico” è il nuovo romanzo di Matteo Righetto, edito da Feltrinelli. Ambientato in un piccolo paese tra le Dolomiti ladine, il libro aggiunge un nuovo tassello a quella letteratura dolomitica contemporanea nata proprio dalla penna dell’autore veneto, che da tempo ha scelto di vivere a Colle Santa Lucia (Belluno). E che, volume dopo volume, sta dando voce a un territorio cui è legato da una forte passione.

Nella narrazione si intrecciano il rapporto tra selvatico e addomesticato, tra umano e non umano, tra naturale e sovrannaturale. La lettura scorre fluida e pagina dopo pagina si avverte la sensazione di scivolare tra le parole ed entrare in connessione con la protagonista, Tina Thaler.

È una bimba, in apertura del libro, e come in un romanzo di formazione sui generis al femminile – ma la sua storia può essere letta anche come una moderna leggenda alpina – la accompagniamo nella sua evoluzione verso l’età adulta in un percorso scandito da ostacoli, difficoltà, scoperte.

Come un filo aggrovigliato che poi si dipana, il mistero che la contraddistingue all’inizio si arricchisce presto di un significato profondo, che riporta lei (e noi) a ritrovare quel legame innato con la forza vitale della natura. Co-protagonista è la montagna stessa, che non fa solo da sfondo al racconto ma è una presenza costante con cui confrontarsi.

Lo scrittore Matteo Righetto (foto di Pierantonio Tanzola) racconta il suo ultimo lavoro letterario: Il sentiero selvatico, edito da Feltrinelli

Il sentiero selvatico, presentazione del libro

Nel piccolo paesino di Larcionéi, piogge incessanti segnano il Giorno dei Morti del 1913. Katharina Thaler, una bambina di dieci anni, scompare misteriosamente durante la messa. Il paese intero la cerca tra i boschi per tutta la notte, invano. una notte di ricerca senza successo, riappare il giorno successivo, il primo dopo la fine delle piogge, senza ricordare cosa le sia successo.

La piccola Tina riappare da sola il giorno dopo, proprio quando finalmente cessa la pioggia. Sta bene, ma non ricorda nulla di quel che le è accaduto, e tra i paesani cominciano a correre strane e malevoli voci. Agli occhi di tutti Tina diventa la strìa, la strega che è stata rapita dai morti, che ha conosciuto il diavolo. Per lei l’unico rifugio, il luogo dove trova pace e sicurezza, è il monte Pore con i suoi boschi, i torrenti e gli animali selvatici.

La sua è una vita di misteri e scelte coraggiose, che la porteranno – da adulta – a diventare una leggenda, la guardiana della natura dolomitica, uno spirito antico che, proprio come gli animali selvatici, si lascia vedere solo se è lei a deciderlo. L’ultima lupa delle Dolomiti.

Dove acquistare il libro?

Il libro può essere acquistato in tutte le librerie (che è il canale di vendita che consigliamo), ma anche online sul sito della casa editrice Feltrinelli e su Amazon.

L’intervista all’autore, Matteo Righetto

In occasione dell’uscita del libro Il sentiero selvatico (disponibile in tutte le librerie) abbiamo intervistato l’autore, Matteo Righetto. Ne è nata una stimolante conversazione ricca di spunti di riflessione a partire dai temi trattati nel romanzo, inframezzata da alcune citazioni tratte dal libro.

Dal libro emerge ben presto un potente richiamo della natura che porta Tina a cercare un contatto diretto con il bosco, assecondando quella che appare come una voce ancestrale, spontanea, familiare.

“Sai, è come se io fossi felice solo in mezzo alla natura, nel bosco, tra le rocce, purché lontana dalla gente”.

Tina Thaler, Il sentiero selvatico

La natura è vista come un tutto di cui siamo parte e non un elemento estraneo, come invece viene percepito dalle persone che Tina ha vicino nel paese. Scrivi infatti “non si sentì nella foresta, bensì la foresta”. Questa connessione diretta rende il “selvatico” un concetto legato alla libertà, all’autenticità, alla scoperta di sé. Ce ne puoi parlare?

«Questo libro può essere affrontato, può essere letto, compreso, vissuto su più piani di lettura. Uno di questi ha a che fare con una sorta di confronto: la dialettica tra selvatico e domestico, tra natura e civiltà. Domestico deriva da domus, casa. Quindi addomesticare significa portare a casa, tenere a bada, controllare. Selvatico, invece, rappresenta proprio la physis della natura dei greci (la realtà prima e fondamentale, principio e causa di tutte le cose, ndr). Quindi quel flusso vitale che è inafferrabile, impalpabile, come il vento c’è ma non lo puoi catturare e non lo puoi controllare. Selvatico deriva appunto da silva, e quindi da foresta, da bosco, da tutto ciò che non conosciamo, e non possiamo conoscere. In Tina ha certamente a che fare con uno spirito di libertà e con un anelito di libertà.

In molte culture ancestrali era presente una spiritualità incentrata sull’unione tra tutti gli esseri viventi, che è lo stesso afflato di vita che ci unisce. Noi oggi queste cose le abbiamo assolutamente perdute. Abbiamo creduto di poter fare a meno della natura e abbiamo addomesticato tutto. In parte lo si vede anche nella nostra quotidianità, sia in montagna sia in città.

Nella dicotomia tra selvatico e domestico, il selvatico rappresenta la libertà, la capacità di sentirsi vivi e di sentire la propria voce intima. Selvatico è anche salvatico, quindi che salva».

Nel libro emerge anche il tema della difficoltà di comprensione. Tina la sperimenta nelle sue relazioni personali, perché viene emarginata e additata come “stria” dai suoi compaesani. Ma la difficoltà di comprensione c’è anche a livello più alto. Porta al conflitto alla prima guerra mondiale, all’esilio forzato dei ladini dalla propria terra e al fatto che in paese non si riesca a capire la gravità di quanto sta accadendo e ci si concentri piuttosto su un problema molto più circoscritto, ovvero il lupo da scacciare.

«È così, e ha a che fare con l’empatia. Questa empatia può riguardare l’interrelazione tra persone ma anche tra umano e non umano. Ci sono persone che maltrattano gli animali persone che con gli animali hanno dei rapporti quasi comunicativi, profondi. Empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro e di ascoltarlo nel profondo, nei suoi bisogni, nei suoi desideri, gioie e dolori.

Questo è un talento che in realtà abbiamo tutti. Io immagino che molte persone siano come una lampada accesa. Però sopra questa lampada è stato messo un telo nero. E poi un secondo telo, un terzo, un quarto, piano piano. Questa lampada non riesce più a produrre luce, ma la lampada è accesa, sotto.

È l’empatia che dobbiamo tutti riscoprire e che comporterebbe anche sicuramente la costruzione di una società migliore, che è quello che Tina vede.

La natura non è né bella, né brutta, né buona, né cattiva. È sacra. In quanto tale ha una sua spiritualità. È lo spirito della vita che ci unisce a questo singolo albero, a questa singola alba, a questa enrosadira, al canto degli uccelli, al ritorno delle rondini.

Ovviamente non è una sacralità confessionale, ma ha a che fare proprio con la sacralità della vita e di tutte le creature. A differenza dell’odio e della violenza che invece produce l’uomo, e che spesso trova dei capri espiatori, come in questo caso i lupi e i selvatici, anziché riconoscere le proprie responsabilità».

In che modo il “sentiero selvatico” può portarci alla riscoperta di una parte di noi?

«Questo aspetto legato alla cura del selvatico è anche una metafora della cura di sé. Quello che ci vuole dire Tina è che nella nostra vita non dobbiamo razionalizzare e ingabbiare ogni singolo minuto della nostra quotidianità. Dobbiamo sempre provare a essere felici, cercare sempre di ascoltare quella voce ancestrale che è in noi.

E quella voce ancestrale come la ascoltiamo? Ognuno a proprio modo. Ad esempio c’è chi a un certo punto dice “basta, devo staccare, mi metto gli sci ai piedi e per cinque ore non mi vede più nessuno”. Quello è lo spirito selvatico, quello è il richiamo selvatico.

Oppure, hai un orto? Bene, in un metro quadrato lascialo libero, lascia che le piante crescano come vogliono, intanto fai bene alla biodiversità e poi non sai mai cosa possa saltar fuori. Quando io cammino per boschi col mio cane, e sono da solo, e sento solo il vento, è un’esperienza clamorosa.

Ognuno di noi dovrebbe fare queste cose, perché se non liberiamo un po’, in senso buono, quel richiamo selvatico che abbiamo, poi vengono fuori i drammi, è una questione psicologica».

La storia è ambientata oltre cento anni fa, ma riprende tematiche e dinamiche assolutamente attuali: gli scenari di guerra con la loro atrocità e, sulle montagne, il rapporto controverso con i “grandi carnivori”, spesso strumentalizzati a livello politico e su cui è facile polarizzare le posizioni, enfatizzare gli schieramenti. Oggi come allora, sembra che l’uomo abbia bisogno di addomesticare il selvatico a tutti i costi, e quando non lo si può fare rappresenta un problema che va eliminato, come accade con il lupo. Che in fondo è una soluzione semplicistica a un problema complesso.

“Più un uomo si allontana dalla natura e più il suo cuore diventa cieco”

– Hilde, Il sentiero selvatico

Nel libro risalta spesso la capacità di Tina di guardare oltre, di comprendere la profondità delle cose. Che cosa, invece, noi oggi non riusciamo più a vedere e non riusciamo a comprendere?

«Non riusciamo a comprendere la sacralità di molte cose, la sacralità della natura e la spiritualità della vita. Abbiamo secolarizzato tutto e reso qualsiasi aspetto del mondo molto materialistico e utilitaristico. E poi abbiamo perso il senso del tempo. Siamo assolutamente schiacciati su un eterno presente, su una simultaneità che ci sta togliendo il fiato, che è stata aggravata e accelerata dal paradigma dei social media e non c’è più il tempo della riflessione.

Viviamo in una società, e questo Tina lo aveva capito, che vuole solo e sempre divertirsi, portare a casa qualcosa. Abbiamo perso la poesia, il senso poetico della vita, del fare le cose.

Spero che questo romanzo porti anche a questa riflessione, cioè al fatto che selvatico e poetico sono due facce della stessa medaglia. Questo è qualcosa che noi possiamo comprendere anche inconsapevolmente, quando incappiamo davanti a un arcobaleno o un tramonto sulle rocce, o il suono di un ruscello, l’avvistamento di uno stambecco sulle crepe. In quel momento si accende in noi la scintilla del selvatico».

La sapienza e la felicità risiedono nelle cose più umili, nella loro sacralità

Il sentiero selvatico

Tina è un personaggio ben definito ma è anche una figura simbolica, spirituale, una messaggera di un modo di vivere e di intendere la natura. Come mai hai scelto proprio una bambina come portatrice di questo sentimento ecologista nel senso più puro del termine? Ecologia come relazione tra gli umani e la terra in cui viviamo.

«Perché le bambine, come tutte le donne, sono sempre state vituperate, oggetto di trattamenti ingiusti e impari da parte del maschilismo imperante, soprattutto in certe culture rurali.

E quindi la bambina rappresentava davvero, secondo me, lo spirito più ribelle da un lato, e quindi quello più giusto per essere simbolo di rottura dirompente rispetto alle regole, ai dogmi e agli schemi prestabiliti dalla cultura dominante.

Non dimentichiamoci che nasce tutto da uno stigma: il fatto che lei diventi subito una strega, rappresentazione del male, del mistero. Però lei riesce a reagire con grande desiderio.

Chi ha letto “La stanza delle mele” aveva già conosciuto Tina. Quel personaggio mi affascinava così tanto che non potevo non raccontarne la storia. Alla fine si scopre che più che la protagonista di un romanzo Tina è una leggenda. Ho provato a scrivere una leggenda proprio perché sia una figura esemplare rispetto a tutto quello che facciamo, viviamo e sentiamo».

Realismo e mistero si mescolano sin dalle prime pagine, con l’inspiegabile sparizione di Tina durante la messa dei morti e poi con il suo improvviso ritorno. Come mai hai voluto intrecciare questi due fili, del naturale e del sovrannaturale?

«I motivi sono tre. Il primo è genuinamente letterario. Penso al nostro caro compaesano Dino Buzzati o ad altri grandi autori come come Calvino, Borges e tutta la famiglia del realismo magico e credo che da un po’ di tempo la mia narrativa non sia inquadrabile in un genere, però ci sia sempre del realismo magico montano.

Fuor di metafora, leggere un mio libro è come camminare in una cengia stretta: a destra hai la parete di roccia, a sinistra il burrone. A destra c’è il realismo, e in questo romanzo c’è il realismo, però hai anche il burrone, che è quello del fantastico.

La seconda motivazione risiede nel fatto che quelle culture erano fortemente intrise di leggende, di credenze popolari. Mi sono informato molto, ho studiato queste cose per poterle affrontare e per restituire verosimiglianza rispetto a ciò che avveniva in quelle comunità.

Infine, è per lo stato di comprensione misteriosa che Tina ha, e che alcune persone hanno. Che magari vengono definite pazze o visionarie o mistiche, ma che in realtà hanno una sensibilità superiore, quindi colgono nella natura cose che sono invisibili agli altri e di conseguenza un aspetto di mistero che tale è e tale rimane».

A proposito del secondo punto, il territorio Fodom è la cornice geografica e culturale in cui si svolgono queste vicende. Dai riferimenti storici inseriti nella narrazione emerge anche la questione ladina e le conseguenze che questa minoranza ha patito in seguito alla prima guerra mondiale: come ti sei documentato? Vivendo gran parte del tuo tempo a Colle Santa Lucia, qual è il tuo rapporto con la cultura ladina?

«La cultura ladina e la lingua ladina sono un patrimonio meraviglioso, da preservare.

Per quanto riguarda la documentazione, molte cose le conoscevo da storico, molte altre le ho imparate dai vecchi del posto, altre ancora le ho apprese attingendo molteplici fonti, tra cui il materiale bibliografico che ho potuto consultare nell’Istituto culturale ladino.

La prima guerra mondiale è stata abominevole sotto tutti i punti di vista, per milioni di persone. In questo territorio le ferite sono state ancora più forti perché eravamo territorio di frontiera, di confine, e di conseguenza i traumi sono stati ancora più grandi».

Nel romanzo ho percepito molti riferimenti sensoriali: dalla voce che Tina sente allo sguardo intenso del lupo, al tatto ogni volta in cui stringe forte a sé nella tasca un ricordo di suo padre, e così via. Ho trovato molteplici riferimenti che portano ad acuire i propri sensi. Non credo sia un caso, vero?

«No, e non è un caso. Poi, sai, ogni lettore ha la sua sensibilità, però questa sensorialità è sempre molto presente in tutti i miei romanzi, perché io sono così. Sono una persona che cerca di utilizzare i sensi anche quando cammino in montagna, osservo e apprendo anche attraverso i sensi. E poi mi piace restituire tutto ciò al lettore proprio in forma di esperienza. Attraverso la letteratura puoi fare un’esperienza ancora più approfondita, che non sia solo intellettuale. Moltissimi lettori mi dicono “quando leggo i tuoi libri io mi trovo lì, mi sembra di toccare, di ascoltare, di sentire” e questo mi piace, trovo sia una cosa bellissima».

Attraverso i tuoi libri e questo in particolare, quali sono per te i valori più importanti da veicolare?

«Sono convinto che, soprattutto oggi e tutti noi, e quindi anche gli scrittori abbiano la necessità di non limitarsi a intrattenere, ma anche di lasciare qualcosa di etico. Attraverso le forme proprie di quell’arte o di quel mestiere che ognuno svolge.

La letteratura deve tracciare un sentiero, offrire un percorso, indicare una strada possibile. Sotto traccia c’è sempre un sentimento e come lo intendeva Dante nella Divina Commedia sentimento non è emozione, è anche presenza di sé, ragionevolezza. Quindi, avere una comprensione maggiore e più consapevole delle cose intorno a noi può far sì che nasca una riflessione che ci porta a ristabilire dei rapporti di armonia e di pace fra noi e tra noi e il creato».

Il sentiero selvatico e la sacralità della natura

Nel “sentiero selvatico” lungo il quale ci guida Matteo Righetto la sacralità della natura si rivela piano piano, sempre più nitidamente. E con essa, un invito a ritrovare una comunione con il mondo, a reimparare ad ascoltare la voce che ci riporta alla nostra essenza più semplice e vera.

Alcune parole tratte dal libro contengono un vero e proprio manifesto, che celebra quella spiritualità non canonica che nasce dalla comprensione e della connessione con la forza vitale della natura. Le riportiamo qui.

Lo spirito di ciò che tu chiami Dio per me risiede nella natura, nelle foreste, negli abeti e nei larici che in autunno si illuminano d’oro. Vive nelle foglie che cadono per poi rinascere, vive nella forza delle rocce e sulle vette delle montagne. Vive nei ghiacciai che si fanno acqua. è il soffio di vita che muove il vento, illumina l’enrosadira, fiorisce nelle genziane e nelle stelle alpine. la sua anima è nel volo delle rondini che ogni anno ritornano, in quello dell’aquila che supera ogni cima, nel bramito del cervo, nell’ululato del lupo. E non è allora lo stesso Dio dei ladini e dei tirolesi e degli italiani e di tutte le persone di questo mondo? Ma se gli uomini non riescono a capirsi, come possono comprendere questo? Dio si trova nella natura, in ogni suo dettaglio. Dovremmo amarla come si ama una madre e come si ama una figlia” – dal libro Il sentiero selvatico, Matteo Righetto, edizioni Feltrinelli.

L’autore, Matteo Righetto

Matteo Righetto vive tra Padova e Colle Santa Lucia (Dolomiti bellunesi).

Dal suo romanzo La pelle dell’orso (Guanda, 2013), da cui è stato tratto un film con Marco Paolini e un sentiero tematico (l’Alta Via dell’Orso, scopri di più leggendo la pagina dedicata).

Il suo esordio avviene nel 2012 con Savana Padana (TEA, 2012).

Matteo Righetto, foto di Pierantonio Tanzola

Escono successivamente Apri gli occhi (TEA, 2016, vincitore del Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo; Feltrinelli UE, 2024) e Dove porta la neve (TEA, 2017). Per Mondadori ha scritto la “Trilogia della Patria” – che comprende i romanzi L’anima della frontiera (2017), L’ultima patria (2018), La terra promessa (2019) – e, insieme a Mauro Corona, il “sillabario alpino” Il passo del vento (2019). La sua trilogia è diventata un caso letterario internazionale con traduzioni in molti Paesi, tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Germania, Olanda.

Per Feltrinelli ha pubblicato I prati dopo di noi (2020) e La stanza delle mele (2022). Per il teatro ha scritto Da qui alla Luna, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto e portato in scena da Andrea Pennacchi. Nel 2019 ha ricevuto il Premio Speciale Dolomiti Unesco. È Presidente della Sezione Livinallongo – Colle Santa Lucia del Club Alpino Italiano.


Tra montagne di carta

Il sentiero selvatico, Matteo Righetto
Feltrinelli, 2024
Acquistalo in libreria, sul sito della casa editrice e su Amazon


Le foto a corredo dell’articolo sono state scattate da Valentina Ciprian per Dolomiti Review sul monte Pore

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